L’inghippo è presto spiegato: la Terra ruota su sé stessa un po’ troppo veloce rispetto a quanto gira attorno al Sole. Detta meglio: un anno di calendario, ovvero 365 giorni, non bastano al nostro pianeta per compiere un’intera rivoluzione attorno al Sole. Al nostro pianeta servono infatti altre 5 ore, 48 minuti e 48 secondi per ritornare nella stessa posizione dell’anno precedente. Ciò significa che ogni anno la Terra è in anticipo di circa un quarto di giorno rispetto al completamento dell’intera orbita e per correggere questa discrepanza è quindi necessario aggiungere un giorno ogni quattro anni.

Siccome però il meccanismo che regola gli astri non è perfetto, anche questa correzione porta a un piccolo scarto. In effetti alla fine del 29 febbraio di ogni anno bisestile, la Terra ha già completato la sua orbita da circa 45 minuti, pari a 0,03 giorni di troppo. In questo caso la mossa per rimettere tutto a posto è di saltare un anno bisestile ogni 100 anni al compimento del secolo, tranne per quei secoli la cui cifra è divisibile per 400. Non sono quindi bisestili il 1700, il 1800, il 1900 e il 2100 mentre lo sono il 1600, il 2000 e il 2400.

La correzione introdotta con gli anni bisestili permette di mantenere invariato, in termini generali, il rapporto tra stagioni e mesi dell’anno. Se si dovesse decidere di non più applicarla, nel giro dei prossimi 400 anni, il calendario si sposterebbe di un’intera stagione. Ciò significa che a fine dicembre inizierebbe l’autunno e non l’inverno.

La difficoltà di allineare la rotazione della Terra con la rivoluzione attorno al Sole (e quindi evitare che le stagioni pian piano si spostassero) era nota sin dall’antichità. Il calendario romano, istituito per tradizione nel 753 avanti Cristo e perfezionato da Numa Popilio, durava 355 giorni e introduceva, in genere ad anni alterni, a metà febbraio un mese supplementare della durata di 22 giorni oppure di 23 giorni. La media, su uno schema ventennale, risultava di 365,25 giorni per ogni anno, molto vicino all’anno tropico di 365,24. Tuttavia, l’introduzione del mese intercalare, che spettava al pontefice massimo, fu decisa così tanto arbitrariamente che nel 46 avanti Cristo i mesi che dovevano cadere d’inverno erano ormai scivolati nell’autunno, con uno sfasamento di ben 67 giorni. Per porre rimedio, l’astronomo Sosigene di Alessandria propose di introdurre, oltre al mese intercalare di 23 giorni pure altri due mesi. Il 46 avanti Cristo durò così ben 15 mesi, per un totale di 456 giorni.

Sosigene propose inoltre di introdurre un anno di 365 giorni e di aggiungerne uno ogni 4 anni. Il nuovo calendario fu promulgato da Giulio Cesare, da cui prese il nome di calendario giuliano. Siccome il giorno veniva introdotto dopo il 24 febbraio (detto sexto die ante Calendas Martias), il nuovo giorno era definito “bix sexto die ante Calendas Martias”. Da qui la definizione di anno bisestile. La precisione del nuovo calcolo, come abbiamo visto, era impressionante per l’epoca, ma non perfetta. Il calendario giuliano guadagna infatti un giorno ogni 128 anni circa. A fine 1500 la differenza rispetto alle stagioni era quindi di nuovo particolarmente evidente, tanto che l’equinozio di primavera arrivava in anticipo e si era spostato dal 21 marzo all’11 marzo. La correzione avvenne per bolla papale da parte di papa Gregorio XIII, che stabilitì di sopprimere dieci giorni nel mese di ottobre del 1582 (che passò da giovedì 4 ottobre a venerdì 15 ottobre) per correggere lo sfasamento, di mantenere l’anno bisestile ogni quattro anni, ma di diminuire il numero di anni bisestili con un ciclo di 400 anni. Il calendario gregoriano, nella sua essenza, è quello che usiamo ancora oggi, che riduce l’errore tra anno di calendario e anno tropico a 26 secondi all’anno, ovvero un giorno di scarto ogni 3233 anni circa. Ci vorrà quindi un bel po’ prima di porsi di nuovo il problema.